Curarsi è un lusso!

Dossier del "Corriere Salute" del 6/10/2013

«Quest'anno per la prima volta abbiamo registrato tra i principali ostacoli nell'accesso alle cure anche il "peso" dei ticket sulla diagnostica e la specialistica — conferma Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale dei diritti del malato — . I cittadini che ci contattano ritengono il superticket una "tassa sulla salute" ingiusta, che li costringe sempre più spesso a rinunciare alle cure o a rimandarle, oppure a pagare di tasca propria quando, per esempio, c'è il sospetto di una malattia grave. E i disagi maggiori li stanno affrontando coloro che vivono in Regioni sottoposte ai cosiddetti piani di rientro».
Fermo restando che, secondo i dati del Ministero della Salute, circa 6 italiani su 10 usufruiscono di esenzioni (per patologia, per reddito o per altre condizioni, vedi articolo a destra), per gli altri che devono sottoporsi a esami o visite, i superticket stanno diventando un salasso, per molti insopportabile. E, da un anno all'altro, sono diminuite di quasi il 9% le prestazioni specialistiche ambulatoriali, come rilevano i dati raccolti in 11 Regioni dall'Agenzia nazionale dei servizi sanitari (Agenas) nell'ambito del programma ReMoLet (Rete di Monitoraggio Lea tempestiva).

Lo studio ha messo a confronto le prestazioni erogate nel primo semestre del 2012 con quelle dello stesso periodo dell'anno precedente. «Il calo arriva al 17,2% nella fascia di popolazione che non ha esenzioni né per patologie né per reddito — fa notare il direttore di Agenas, Fulvio Moirano — . Questo dato suggerisce che, a causa dei maggiori costi delle prestazioni nel Servizio sanitario, un cittadino su cinque ha deciso di non richiederle o di acquistarle dalle strutture private (o in intramoenia, si veda articolo nelle pagine successive)». «Non fare accertamenti necessari significa rinunciare alla prevenzione, ma anche non curare in tempo le malattie, con maggiori costi futuri, peraltro, a carico del Servizio sanitario — sottolinea Walter Ricciardi, direttore dell'Istituto di igiene all'Università Cattolica-Policlinico Gemelli di Roma e coordinatore di Osservasalute, l'Osservatorio che monitora da 10 anni la salute degli italiani —. Per esempio, una donna che deve fare la mammografia perché presenta fattori di rischio, come noduli al seno e familiarità, può arrivare in qualche Regione a spendere anche 70-80 euro, e in tempo di crisi spesso decide di non farla».
«Nell'ultimo periodo — continua Ricciardi — abbiamo verificato che la compartecipazione alla spesa è tra i principali fattori che disincentivano la prevenzione, oltre che uno strumento di sperequazione, perché fa aumentare la differenza tra persone che possono permettersi di pagare per curarsi e quelle che invece sono in difficoltà economiche, soprattutto nell'Italia Centro-meridionale». «L'attuale sistema dei superticket va corretto perché sta negando ad alcuni cittadini il diritto alla salute, ma mette anche a rischio la tenuta del Servizio sanitario — interviene Valerio Alberti, presidente di Fiaso, la Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere —. Stiamo preparando una proposta per rendere più equo l'accesso alle prestazioni e, al tempo stesso,salvaguardare la sostenibilità del sistema. Ma, per risparmiare e offrire migliori servizi, occorre anche mettere in rete le "buone pratiche" e puntare sulla qualità dei manager delle aziende sanitarie». Sulla revisione della compartecipazione alla spesa sta lavorando anche la Conferenza Stato-Regioni. Nel frattempo, è stata sospesa l'introduzione di nuovi ticket (importo complessivo stimato, 2 miliardi annui) a partire da gennaio 2014. Ma tocca alla prossima Legge di stabilità assicurare la copertura di quel gettito.
 

Disuguaglianze e alti costi negano di fatto il diritto alla salute.
  S iamo tra i più longevi nell'Unione europea e in questi anni abbiamo ridotto più degli altri Stati i tassi di mortalità infantile, ma il nostro Paese "incassa" quasi il doppio di segnalazioni dei cittadini sugli «ostacoli» che si incontrano nell'accesso ai servizi sanitari: 6,9% rispetto al 3,5% della media europea. Lo rileva un recente rapporto della Commissione europea sulle disuguaglianze in materia di salute tra gli Stati membri. Tra gli ostacoli che impediscono di avere cure adeguate spiccano le liste di attesa troppo lunghe, il disagio di affrontare i "viaggi della salute" in luoghi lontani da casa, i costi elevati delle prestazioni.
Dallo studio, inoltre, emerge che il 10% della popolazione italiana presenta "gravi privazioni materiali", come l'impossibilità di pagare l'affitto o le bollette, di far fronte a spese impreviste, di riscaldare adeguatamente la propria abitazione. Gli italiani in condizioni di grave povertà sono il doppio rispetto a francesi, tedeschi e inglesi. «Il nostro studio evidenzia che il divario tra ricchi e poveri, è molto ampio» afferma Paola Testori Coggi, direttore generale "Salute e consumatori" della Commissione europea. Ed è stato calcolato che una persona in stato di "grave privazione materiale" rischia cinque volte più degli altri cattive o pessime condizioni di salute. Per combattere le discriminazioni nell'assistenza sanitaria tra gruppi sociali, Stati membri e anche al loro interno, lo scorso febbraio la Commissione europea ha approvato, nell'ambito della strategia Europa 2020, il documento "Investire in salute", che invita appunto i Paesi dell'Unione a investire sulla salute dei cittadini. «Riuscire a ridurre le disuguaglianze spezza il circolo vizioso della salute precaria che contribuisce alla povertà e ne è allo stesso tempo una causa — commenta Paola Testori Coggi — . I dati di cui disponiamo suggeriscono che l'accesso universale ai servizi sanitari può contribuire a ridurre la povertà». «Eventuali misure volte a contenere la spesa pubblica, come l'aumento dei costi a carico degli utenti, devono essere valutate attentamente, in quanto possono causare una limitazione dell'accesso all'assistenza sanitaria proprio per la parte più vulnerabile della popolazione e aggravare il suo disagio economico — continua la dirigente della Commissione europea — . Più in generale, lottare contro le disuguaglianze in campo sanitario richiede un approccio plurisettoriale che affronti i fattori di rischio che incidono sulla salute.
A tal fine occorre garantire redditi sufficienti nonché condizioni di vita e di lavoro adeguate». Il documento non è vincolante per gli Stati membri, ma ha già ricevuto reazioni positive riguardo all'approccio che suggerisce. «Ora siamo in attesa di conoscere meglio le azioni previste dall'Italia» conclude Coggi

Una «quota fissa» di 10 euro che però può perfino triplicarsi. L a medesima prestazione - per esempio, una visita specialistica o un'ecografia, può avere un costo diverso a seconda della regione dove si vive. La giungla di ticket e superticket è sottolineata anche dall'Agenas, l'Agenzia nazionale dei servizi regionali. «Il superticket sulle prestazioni specialistiche ambulatoriali varia da Regione a Regione — dice Isabella Morandi, esperta di Agenas che ha esaminato i vari sistemi di compartecipazione al costo — . La manovra finanziaria del 2011 ha previsto per i non esenti il pagamento di un'ulteriore quota fissa sulla ricetta pari a 10 euro, consentendo però alle Regioni di adottare alternative che assicurino lo stesso gettito. Di conseguenza, l'importo del ticket che i cittadini devono pagare dipende sia dalle tariffe delle singole prestazioni adottate in ciascuna Regione, sia dalle misure poi introdotte ai sensi della Legge entrata in vigore due anni fa». Così, accade che in Valle d'Aosta e nelle Province autonome di Trento e Bolzano non si applica la quota fissa di 10 euro e quindi si paga solo il ticket fino a un massimo di 36.15 euro. Ad applicare invece la quota aggiuntiva di 10 euro sono nove Regioni: Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lazio, Molise, Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna. Le altre hanno introdotto misure diverse. In particolare, in cinque Regioni - Veneto, Marche, Emilia Romagna, Toscana, Umbria - il cosiddetto superticket è rimodulato in base al reddito. Per esempio, in Veneto è di 5 euro se si ha un reddito fino a 29 mila euro e di 10 per chi ha un reddito maggiore, mentre nelle altre quattro Regioni si paga in forma progressiva in base a 4 scaglioni di reddito: per esempio, non paga il superticket chi ha un reddito fino a 36.151,98 euro, mentre chi appartiene alla fascia più alta, con reddito oltre i 100 mila euro, spende fino a 30 euro in più sulla ricetta. Nelle altre quattro Regioni - Lombardia, Piemonte, Basilicata, Campania - si paga una cifra variabile da 0 a 30 euro, proporzionalmente al valore della prestazione. Alcune Regioni, poi, prevedono ticket differenziati per determinate prestazioni ad alto costo, come TAC, risonanza magnetica, PET, chirurgia ambulatoriale. «Quest'estrema variabilità delle compartecipazioni crea discriminazioni tra i cittadini che devono corrispondere importi differenti per la stessa prestazione — commenta Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale dei diritti del malato — . Di conseguenza, cure in teoria dovute a tutti, in quanto rientrano nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), sono garantite in modo diverso a seconda di dove si risiede. E ancora una volta i più penalizzati sono i cittadini delle Regioni con piani di rientro, già colpiti da altre tasse regionali». «Per assicurare i Lea in modo uniforme, il sistema della compartecipazione dovrebbe essere ridefinito, — sottolinea Morandi — favorendo, però, anche l'appropriatezza: inducendo, cioè, medici e cittadini a prescrivere e richiedere prestazioni solo se servono. Così otterremmo: risparmio per il Servizio sanitario, riduzione delle liste di attesa e pure minori rischi per i pazienti».
 Fonte FIMMG

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